Tra goliardia e denuncia sociale, fu realizzato con intenti sarcastici, certo non con reali ambizioni di successo commerciale o da premio della critica. Ma ora si scherza meno. Le conseguenze giudiziarie per l’uscita di «Colpo di Grazia», una bizzarra fiction a puntate pubblicata sul web nel febbraio 2021, nella quale si puntava il dito contro le politiche urbanistiche della precedente giunta comunale di Monza, hanno portato a un processo per diffamazione in cui due delle quattro parti offese individuate — l’ex sindaco centrodestra Dario Allevi e l’ex assessore leghista alla sicurezza Federico Arena — chiedono un maxirisarcimento pari ad «almeno 100mila euro» il primo e «almeno 70mila euro» il secondo. A giudizio ci sono due persone: non si tratta, però degli autori, rimasti sempre avvolti nel mistero, anche se la matrice era riconducibile all’area antagonista dello storico centro sociale monzese Boccaccio, ma dei due tecnici che materialmente lo hanno diffuso in rete, attraverso un sito dedicato. Nell’atto di costituzione di parte civile al processo, fissato il 30 ottobre prossimo davanti al giudice Roberto Russo, i due ex esponenti dell’amministrazione (Allevi oggi siede nei banchi consiliari d’opposizione), assistiti dagli avvocati Attilio Villa e Carlo Cappuccio, giustificano la richiesta di indennizzo con il «particolare allarme sociale» creato dalla produzione che, secondo le tesi legali, aveva il «chiaro intento di «screditare» il loro ruolo istituzionale, attraverso un mezzo considerato «insidioso» per la facilità della sua diffusione. PUBBLICITÀ Si riportano ulteriori considerazioni su danni patrimoniali, morali e d’immagine che i due avrebbero subito. Dall’ex assessora all’urbanistica Martina Sassoli, e dal Comune di Monza (oggi governato dal centrosinistra) — gli altri due soggetti individuati come parti lese della presunta condotta diffamatoria — non sono giunte istanze o pretese di indennizzo. L’uscita di «Colpo di grazia» aveva sicuramente irritato la precedente giunta. Un film con sottotitolo esplicito («La città di Teodolinda ha le ore contate»), a metà tra la fiction e il «mockumentary», espressione anglosassone per definire il falso documentario, la cui regia veniva attribuita alla «svedese Skyler Grey», chiaramente inventata dagli autori. Tra i personaggi (che non apparivano mai in viso), c’era il sindaco con la tessera del vecchio Movimento Sociale, chiaro riferimento al background politico dell’ex primo cittadino Allevi, o l’assessora «Martina» in tacchi e giacca di pelliccia, e il suo collega «Chicco» con fazzoletto «lumbard» nel taschino, evidenti parodie di Sassoli e Arena. E a comporre il cast c’erano anche le figure del palazzinaro, dell’architetto «green», dell’ambientalista «corruttibile». E ancora del «gangsta» in tenuta da picchiatore, o dell’arciprete immischiato nelle faccende politiche, a rappresentare un certo potere clericale conservatore. La trama era ambientata ovviamente a Monza, «la città dove tutti conoscono tutti», e ruotava attorno a un ipotetico accordo corruttivo tra il sindaco e un costruttore interessato al progetto del «mini bosco verticale monzese», vicenda di cui si era parlato veramente a fine 2019: un progetto di recupero di un’area di via Ugo Foscolo firmata dallo studio Boeri, che aveva suscitato le proteste dei comitati cittadini di zona. Le indagini coordinate dalla procuratrice aggiunta Manuela Massenz non svelarono l’identità di autori e interpreti, ma individuarono le due persone ritenute responsabili della «distribuzione dell’opera», difese dagli avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco. Ora ci si avvicina al processo, con le pesanti richieste risarcitorie. «Una produzione assurdamente grottesca, all’evidenza priva di qualsiasi pretesa di serietà viene trattata come un documentario di inchiesta — è il commento dei difensori —. La richiesta di risarcimento lascia attoniti e preoccupa. La satira politica è un ingrediente irrinunciabile in una democrazia. Viene da pensare che anche questo sia uno scherzo e questa volta siamo noi a non averlo capito».